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Proteggiamo i nostri ragazzi

da Redazione
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Nel travagliato cammino della vita siamo alla continua ricerca del nostro posto nel mondo. Progetti, sogni, interessi: è tutto ciò che ci mantiene vivi e ci fa sperimentare quel piacevole senso di benessere. Ma, principalmente, ciò che ci rende veramente felici sono i legami più intimi, i nostri punti fermi che ci consentono di andare avanti anche nei momenti più bui, trasmettendoci quella sensazione rassicurante di avere uno sfondo stabile alle spalle, un terreno ben saldo sul quale camminare.

La solitudine e la mancanza di punti di riferimento genera, soprattutto, negli adolescenti una difficoltà relazionale che li spinge a ricercare legami nei social media percepiti come più facilmente raggiungibili e nei quali ci si sente meno esposti.

La vulnerabilità tipicamente adolescenziale sembra assumere proporzioni smisurate in questa fase storica connotata dall’incertezza per il futuro e dall’instabilità dei legami.

La sofferenza ed il malessere giovanile in questi anni di pandemia si sono radicati; con la difficoltà di intrattenere delle relazioni sociali che non siano prettamente virtuali è subentrata l’angoscia. La maggior parte degli adolescenti ha sofferto di ansia e depressione che, in alcuni casi, sono sfociati in condotte autolesive e tentativi di suicidio. Infatti, negli ultimi anni sono aumentati esponenzialmente i casi di suicidio consapevole o accidentale. I social, senza volerli demonizzare, hanno comunque contribuito alla diffusione di fenomeni di violenza e di condotte antisociali sfociando nel cyberbullismo, del quale tutti abbiamo sentito parlare, ma forse, ancora, non ne conosciamo molto e, soprattutto, i risvolti drammatici.

L’isolamento che ha caratterizzato quest’ultimo periodo ha contribuito ad accrescere la dipendenza da internet, evidenziando di contro l’insaziabile ed imprescindibile bisogno di relazioni reali e di sentirsi parte di una rete sociale. Il gruppo dei pari, che per gli adolescenti ha da sempre costituito un buon contenitore delle emozioni, fungendo da supporto e favorendo la possibilità di canalizzare l’energia, oggi tendenzialmente è stato sostituito dai social media, diventati i nuovi luoghi dell’incontro. Mentre ci si sente al sicuro tra le proprie mura domestiche, crescono paradossalmente le insidie in un mondo dove tutti sono costantemente raggiungibili, dove le distanze si annullano, i confini non esistono e le parole possono scorrere come lame taglienti senza freni ed inibizioni.

Qui le ‘vittime’ non trovano angoli nei quali rifugiarsi, ma vengono messi a nudo nella ‘piazza’ di tutto il mondo, spogliati della loro dignità. Il profondo senso di vergogna e la frustrazione che ne derivano spesso per loro non sono dicibili, troppo doloroso sentirsi sconfitto nella partita della vita.

La perdita di senso favorisce la perdita di desideri e di prospettive; calando la progettualità futura subentra l’indifferenza nei confronti della vita, ma anche della morte. Tutto si appiattisce, sbiadisce… cresce il bisogno di sentirsi e per ricercare sensazioni ci si rivolge al proprio corpo con atti di autolesionismo.

Le difficoltà vissute dai giovani spesso come insormontabili sembrano amplificarsi se vissuti nella solitudine e nel silenzio, segno di uno spiccato bisogno di presenze sane e nutrienti.

La pandemia non ha fatto altro che slatentizzare uno sfondo sociale che era già abbastanza precario, evidenziando disagi e malessere che premevano per emergere.

Nell’insaziabile ricerca della verità ci muoviamo in questo scenario che appare sempre più surreale. Assistiamo attoniti a fatti di cronaca che spesso sconvolgono, gettandoci in uno stato di angoscia. Siamo tutti alla ricerca del senso di questa vita che a volte appare ingiusta, difficile da percorrere, troppo travagliata per essere vissuta in solitudine.

Alessandro, Michele…non sono solo nomi di giovani vite spezzate, sono i nostri figli, figli di un tempo fugace, di incontri effimeri, di una società troppo distratta dal capitalismo e dalla modernizzazione per attenzionare i più fragili, sorda al grido di dolore di figli dimenticati tra il lavoro e le bollette da pagare, tra ansie e preoccupazioni che sembrano accompagnare il quotidiano vivere.

Il senso d’impotenza che ci coglie quando apprendiamo di un giovane che non ha trovato altre soluzioni al senso di smarrimento e di vuoto se non quella di mettere fine alla propria esistenza, non solo è una sconfitta per tutti noi genitori, insegnanti e la società tutta, ma diventerà un fallimento se non lo trasformiamo in azioni concrete che restituiscano ai giovani il senso della loro esistenza, di una vita che va custodita, troppo preziosa per essere gettata via per un challenge o cose simili.

La ricerca continua di conferme non può essere saziata dai “like” che non placano il bisogno di essere visti ed accolti per quello che realmente si è. Solo chi è stato visto pienamente in una relazione sana potrà reggere il ‘peso’ di un rifiuto o di un giudizio: l’essere riconosciuti dall’altro favorisce la possibilità di riconoscersi in un’appartenenza sana che conferma la mia presenza nel mondo. Solo così l’altro non potrà frantumare il mio Io perché poggia su basi solide, quelle costruite nell’ambito di una relazione significativa.

L’adolescente ha l’arduo compito di trovare la definizione di sé, un sé in continua evoluzione sconvolto dalle innumerevoli trasformazioni fisiche e psicologiche che sfociano in un lavorio interiore. La costruzione dell’identità è un processo graduale, che richiede un accompagnamento, una presenza stabile, rassicurante, accogliente ma discreta che gli trasmetta la fiducia in sé stessi, che li faccia sentire speciali, fieri della propria unicità e che sappia ascoltare e leggere tra i silenzi.

Il tempo dell’ascolto è ora, nell’esatto momento in cui il giovane reclama la nostra presenza o, forse, anche quando, tra i suoi silenzi, ci invita ad esser-ci con e per lui.

Oggi i giovani faticano ad accogliere le loro fragilità forse perché figli di una società narcisistica che punta sempre al massimo, troppe aspettative che innescano la paura di deludere, di non essere all’altezza, sfociando in alcuni casi nella disperazione, rendendoli vulnerabili, incapaci di tollerare anche le più banali sconfitte della vita. Se non insegniamo loro a tollerare la frustrazione, a rialzarsi dopo una caduta, ad affrontare l’ostacolo anziché aggirarlo, cresceremo figli dall’apparente corazza, ma con un Io fragile.

Ogni errore ci chiama alla prova, a rimetterci in discussione e a cambiare rotta.

Il vero insegnamento che possiamo offrire è il nostro esempio: se viviamo nell’accoglienza dell’altro gli insegneremo il valore della diversità, se pratichiamo rispetto gli infonderemo il senso della dignità e dell’uguaglianza. Il giudizio è un cattivo compagno di viaggio. Trasformare i limiti in risorse, le paure in speranze e le aspettative in fiducia è ciò che gli permetterà di spiccare il volo.

L’amore per sé e per l’Altro salverà dall’ineffabile sensazione di aver perso…

Carmen Ventura Psicologa-Psicoterapeuta

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