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Giuseppe: “padre lavoratore” nell’essenzialità

da Pietro Avveduto
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I Santi non sono posti sugli altari per adornare le Chiese e per prender polvere. Loro hanno una funzione educativa: ricordare, anche al più distratto passante, che è possibile vivere il Vangelo e realizzare la personale vocazione alla santità.
La Lettera Apostolica “Patris Corde” si innesta perfettamente nel processo educativo dei fedeli con la ulteriore consapevolezza di dover presentare un Santo, San Giuseppe, la cui figura è così fortemente sedimentata e consolidata nell’immaginario dei fedeli che ogni tentativo di coglierne la “novità” potrebbe soccombere sotto l’approccio del “già sentito” e del “risaputo”.

Proprio la presentazione della santità di Giuseppe è stato il primo aspetto che mi ha colpito nello scritto di Papa Francesco.
Giuseppe è uno dei tanti personaggi che, all’interno della narrazione evangelica, fanno delle apparizioni fugaci e, così come sono apparsi, escono di scena silenziosamente. Penso al “giovane ricco”, a Zaccheo, al Cireneo, alla Samaritana; tutti personaggi di cui sappiamo solamente che, in un determinato momento della loro vita, hanno incrociato la loro storia con quella di Gesù. A differenza di questi, però, San Giuseppe trova posto nella tradizione e nella storia della Chiesa e diventa oggetto di venerazione.

La “novità” alla quale San Giuseppe ci invita a guardare è proprio nell’assenza di cose fatte o dette. La sua è una santità declinata con il verbo “essere”: Giuseppe è lavoratore, è sposo, è padre ma, sopra e prima di ogni cosa, è “uomo giusto”. E proprio questo “essere uomo giusto” rappresenta la chiave di lettura di una figura che le logiche umane, forse, catalogherebbero come “il peggior padre della storia del mondo”.

Il “giusto” è colui che è in relazione intima con Dio, si pone al Suo ascolto e ricerca costantemente la Sua volontà. “Essere giusti” è la condicio sine qua non che ci consente di percorrere il nostro personale cammino di salvezza e ci consente di realizzare pienamente la nostra vocazione alla santità.

La santità dell’”essere” che, attraverso la figura di Giuseppe, Papa Francesco mette in evidenza è una chiamata a qualcosa di impegnativo: è un invito a lasciare che si realizzi in noi una sorta di “nuova incarnazione” della Parola e lasciare che pervada tutta la nostra quotidianità. Un impegno che siamo chiamati a realizzare e che possiamo realizzare solo attraverso la “conversione”, cioè attraverso della prospettiva dalla quale osserviamo e ci relazioniamo con Dio e, attraverso Lui, con la nostra quotidianità.

Ecco che, allora, le varie sfaccettature di Giuseppe e del suo ”essere padre”, proposte da Papa Francesco, si ammantano di una luce “nuova”. Ecco che la figura di Giuseppe, nel suo essere “padre lavoratore”, abbandona il ruolo di “comparsa” e si mostra in tutta la sua centralità di “co-artefice” del progetto di salvezza, perché è proprio questo essere “padre lavoratore” che consente a Giuseppe di adempiere al compito che gli è stato affidato: far diventare il “vero Dio” un “vero Uomo”, il “nuovo Adamo”.

Un ruolo di “co-artefice” che non è stato riservato esclusivamente a Giuseppe. Anche per noi, come ci ricorda il Santo Padre, “il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia”.

Ed eccoci al secondo punto dello scritto di Papa Francesco che ha attirato la mia attenzione e curiosità: il lavoro come “strumento” per la realizzazione personale e dell’altro. Ma, guardando la realtà nella quale viviamo, possiamo dire che è proprio così?

La nostra società ci ha portati a trasformare gli strumenti in obiettivi da raggiungere per poterci considerare “realizzati”: il lavoro, l’agiatezza, la posizione sociale. La nostra vita diventa un continuo rincorrere quelle che San Filippo Neri chiamava “Vanità di vanità” ed il mancato raggiungimento di questi obiettivi diventa motivo di insoddisfazione, depressione, disperazione.

Giuseppe, uomo “giusto”, ci riporta all’essenzialità di una vita vissuta in relazione intima con Dio. Una relazione di ascolto, di affidamento e di ricerca della Sua volontà che diventa piena realizzazione nella santità.
Giuseppe ci riporta all’essenzialità attraverso la concretezza del suo alzarsi per fuggire in Egitto con Maria ed il bambino appena nato.

Giuseppe ci riporta all’essenzialità attraverso il suo fidarsi ed affidarsi totalmente a Dio per quella che sarebbe stata la loro vita in terra straniera.

Giuseppe ci riporta all’essenzialità di una vita che diventa “Vangelo vissuto”.

In fondo, se ci riflettiamo, se crediamo a Gesù quando ci promette la “vita eterna”, perché non credergli anche quando ci dice “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?” (Mt. 6, 26).

Allora facciamo nostro il motto “Ite ad Ioseph” ed attingiamo alla sua essenzialità per dare nuova linfa e nuovo vigore al nostro “essere padri”, “essere madri”, “essere figli di Dio”.

1 commento

rosariapiazzese36@ gmail .it 17 Aprile 2021 - 14:23

Complimenti per questo interessante articolo su San Giuseppe.La sua è una santità declinata con il verbo essere.Giuseppe è lavoratore,è sposo,è padre,è,soprattutto,” uomo giusto “.

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