Home L’angolo di Gabriele Squid game e la corresponsabilità educativa nei confronti dei ragazzi

Squid game e la corresponsabilità educativa nei confronti dei ragazzi

da Redazione
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Una moda? Un fenomeno del momento? Sicuramente qualcosa che desta perplessità e dubbi, che si palesa con tanto timore e perché no con paura di ciò che potrebbe determinare, per l’impatto e le suggestioni che può provocare nelle menti in evoluzione, non ancora mature, dei giovanissimi.

In molti sono scesi in campo cercando di affrontare la questione “Squid game”, avvertita come una minaccia pericolosa capace di esporre e turbare le menti e gli animi dei ragazzi. La paura di emulazione è forte, e nel corso degli ultimi tempi si è purtroppo assistito a vari fenomeni in cui ragazzini emulando giochi virtuali hanno perso la vita partecipando a challenge di varia natura che rimbalzavano da un social all’altro.

Vietare, censurare, proibire non ritengo siano modalità funzionali ad impedire di rintracciare “fenomeni” potenzialmente e altrettanto pericolosi nel web e nella TV, sempre fruibili. L’offerta è vasta e sempre disponibile “a portata di click”!

Sicuramente ciò che non si può derogare, né demandare ad altri, è il ruolo importante e insostituibile delle figure educative.

E allora che fare? Non è possibile censurare tutto a priori, anche perché il proibito spesso diventa ambito e allettante. Occorre allora conoscere il fenomeno di cui si sta parlando e anche il fatto stesso di parlarne attira ancora di più l’attenzione di tutti, adulti e ragazzi. Ma è proprio l’attenzione degli adulti in primis che deve essere catturata, perché negli ultimi anni, con l’avvento del digitale e del web, il gap generazionale è diventato molto ampio e questo crea inevitabilmente difficoltà di comprensione, di stare al passo ad un mondo che si evolve molto velocemente.

Indagare per capire cosa attira e parlare, chiedere e porsi e farsi porre delle domande e poter trovare insieme delle risposte, porsi nel ruolo fondamentale di fare da “filtro” e di “dare il buon esempio”.

Non basta e spesso serve a poco proibire.

Siamo costantemente tutti esposti a una realtà fatta di brutture e violenza, essa entra nelle nostre case, costantemente; questa esposizione ha creato cambiamenti anche in noi adulti e nella nostra percezione di quanto accade abbassando il nostro livello di stupore, quasi anestetizzandolo, ma la preoccupazione educativa non può abbassarsi.

Non è ammutolendo o bandendo il pericolo dalle nostre case che esso sparirà dal mondo e non possiamo neppure far crescere i nostri figli proteggendoli da tutto e da tutti, questo probabilmente è il desiderio di ogni genitore che il proprio figlio sia felice e non incontri ostacoli, ma in questo dovremmo domandarci quanto questo agire abbia reso i nostri figli più fragili.

Se guardo alla mia adolescenza e infanzia c’era una netta distinzione tra la finzione fatta dai cartoni animati, in cui i temi del bene e del male, della morte, della violenza e della distruzione, erano pur presenti, e il mondo reale; era pur presente il desiderio di emulare i nostri eroi giocando, ripresentando le loro gesta eroiche (chi non è uscito fuori casa dopo aver visto una puntata di Holly e Benji e provato a fare un goal o un’azione come la loro!?) ; oggi con il virtuale si è assottigliato “ciò che è” dal “ciò che potrebbe essere” ed è proprio lì che il ruolo dell’adulto deve inserirsi: nel potrebbe essere.

Non possiamo non riconoscere la incapacità fisiologica dei ragazzi di distinguere ciò che va da ciò che non va, non sono capaci di immaginarsi le conseguenze a cui il loro agire potrebbe portare, il loro cervello non è ancora maturo per poter elaborare una informazione così complessa.

Il “rischio” di emulare certe modalità è ciò che spaventa e che si teme di non poter controllare, ma, come dice Anna Oliviero Ferraris “non è la semplice esposizione a qualcosa che ne determina l’emulazione”, alla base della emulazione vi è un processo psicologico più pregnante e più duraturo: il processo di identificazione con i personaggi che va ad innestarsi sull’immagine che il bambino ha di se stesso e sul suo bisogno profondo di riconoscimento, di essere visto, di essere amato. Squid game è un prodotto che tocca elementi psicologici profondi, semplici come i giochi d’infanzia, e profondi come la vita in gioco, ma è in linea con il tempo sociale e culturale che viviamo. Lo stesso valore che diamo alla vita è messo in crisi dalla realtà che viviamo.

 

Una provocazione: quando veniamo a conoscenza o vediamo in tv le immagini di naufragi nel mar mediterraneo, in cui uomini, donne e bambini, perdono la vita e la mettono a rischio per una speranza, e ci vengono proposti commenti crudi e inumani è tanto diverso da ciò che squid game fa vedere?

Io credo fortemente nel ruolo educativo e del buon esempio di noi adulti e credo anche che negli ultimi anni si è un po’ trascurato questo aspetto fondamentale per la crescita, in molti agiscono noncuranti delle regole, anche delle più semplici ma che hanno un potere pregnante nello stile educativo genitoriale e adulto in generale, esiste un vuoto educativo che deve essere recuperato e non è possibile delegare, dobbiamo tutti assumerci la nostra parte di responsabilità e seguire una linea che sia comune e cooperativa, non “ognuno fa per se”, questo è quello che nella serie tv viene dato come principio alla sopravvivenza, ma nessuno si salva da solo.

È impossibile che i ragazzi e i bambini non vengano a contatto, anche solo per sentito dire, con il mondo di squid game, è doveroso impedire e limitarne la visione, indubbiamente, ma verranno con delle domande o comunque avranno la curiosità e devono poter sapere di poterci porre certe domande su temi così profondi e destabilizzanti come la violenza. Realtà e finzione non sono la stessa cosa, ma può accadere che diventino sovrapponibili.

Come di qualsiasi argomento e situazione che ci sfugge, che non comprendiamo, che temiamo, fermiamoci, interroghiamoci e cerchiamo di capire, sediamoci accanto ai nostri ragazzi e affrontiamo il discorso, ascoltiamo le loro riflessioni e non eleviamoci a detentori del sapere o del ciò che giusto o sbagliato se poi anche noi parcheggiamo in seconda fila o prendiamo un divieto!

Cosa poter fare, indubbiamente informarci, poi metterci nella posizione di ascolto e accoglienza di ciò che portano i ragazzi, non barrichiamoci dietro alla falsa credenza del noi adulti sappiamo cosa è meglio per loro, non è così, i bambini e i ragazzi sono attenti osservatori del loro mondo circostante, forse più di noi adulti sono calati e interagiscono con differenti contesti che li influenzano, sono detentori di un sapere diverso dal nostro, ma non per questo meno importante da essere ascoltato. E per esorcizzare le paure ciò che temiamo dev’essere definito, ascoltato, condiviso, affrontato e compreso.

Un altro tema che la serie tocca da vicino e lo mostra crudelmente è il tema della morte. La morte come ultima fase del ciclo di vita. Anche da questo argomento spesso noi adulti tentiamo di “proteggere” i nostri figli, non li esponiamo alla visione di un corpo esanime, non lo esponiamo alla sofferenza che si prova e al dolore, perché? La nascita, la morte, la gioia, la sofferenza, il dolore, sono tutte appartenenti alla vita nella sua stessa essenza. Condividerli, spiegarli ed accettare le domande e poter rispondere o cercare insieme le risposte, questo è quello che permette in tutti i contesti di essere agenti educanti. Ci avviciniamo al mese dedicato al ricordo delle persone che non ci sono più, il ricordo è ciò che ci lega a loro, il cartone animato della Disney che affronta questo tema del ricordo dei defunti presente in Coco ci ricorda come la commemorazione dei defunti, el dia de los muertos, sia un rituale di preparazione al ricordo denso di significati profondi, chi non viene ricordato svanisce e il ricordare è ciò che ci lega gli uni agli altri nella storia.

di Daniela Giunta – Psicoterapeuta

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