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Don Bosco l’educatore. L’autorevolezza di un padre

da Redazione
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Il processo educativo è un percorso di crescita in cui si co-costruisce l’esperienza di maturazione che mira a far emergere l’identità del bambino prima e dell’adulto che sarà domani, seguendo lo snodarsi dell’esperienza con sguardo attento e vigile, mai oppressivo, offrendogli, dunque, gli strumenti necessari affinché possa fiorire la sua storia con fluidità e pienezza. Etimologicamente il termine educare, dal latino ex-dùcere, che vuol dire trarre fuori, rimanda proprio ad un processo relazionale in cui l’adulto che si prende cura fa emergere dallo sfondo le risorse del bambino, accompagnandolo con fiducia affinché possa assimilare l’esperienza così che diventi parte integrante del sé, della sua identità.

Un compito arduo e per nulla scontato al quale sono chiamati gli adulti (genitori, educatori, coloro che si prendono cura) che hanno la responsabilità di aiutare il bambino a crescere trasmettendogli in modo genuino, privo di giudizi e preconcetti, valori ed apprendimenti che formeranno le generazioni future. Una sfida che chiama l’adulto alla relazione e dalla quale non può esimersi, rispondendo con rigidità ed autorità o con freddezza, delegando a terzi.

Dunque, chi ha il delicato compito di accompagnare i giovani nella crescita, occupandosi della loro educazione e formazione, ha il dovere di interrogarsi sulla propria funzione educativa e su quale sia il modello educativo più idoneo per uno sviluppo sano.

Spesso vi è la convinzione errata che educare voglia dire ‘riempire’ i giovani, come un contenitore vuoto, di apprendimenti, di regole da rispettare, un trasferimento asettico di nozioni, di informazioni, trascurando le individualità.

Gli itinerari della crescita prevedono un cammino formativo in cui l’adulto che li accompagna si fa presenza viva e attiva, custode delle speranze e dei bisogni, delle ansie e delle preoccupazioni, che guarda con fiducia all’evolversi dell’esperienza, attendendo che gli insegnamenti trovino terreno fertile per poter germogliare nel momento giusto, ma con la consapevolezza della direzione verso cui si sta andando.

La figura di  Don Bosco ce lo insegna bene. Il suo sistema educativo poggiava proprio sulla consapevolezza dell’importanza di lasciare liberi i giovani di fare le cose che preferivano, poiché ognuno fa con piacere quello che sa fare: quando si lavora con amore e passione vengono fuori delle cose meravigliose. Il compito dell’educatore è, dunque, quello di favorire la possibilità che queste abilità possano svilupparsi in un lavoro di compartecipazione. La sua presenza paterna e fraterna gli ha consentito di accostarsi ai giovani in difficoltà, con spontaneità e con autenticità, di raggiungerli nei loro bisogni e di farsi seguire nei suoi insegnamenti con l’autorevolezza di un padre che con amore accompagna i propri figli nel delicato compito della crescita.

L’educazione è frutto dell’incontro, un esserci pienamente presente, interessato alla storia dell’altro ed alla sua unicità. Quando il giovane sente l’autenticità della presenza e della relazione lascia cadere le difese aprendo la strada ad una presenza propositiva.

Oggi più che mai gli adolescenti hanno un gran bisogno di punti di riferimento, di modelli a cui ispirarsi o dai quali differenziarsi. I genitori, in primis, si offrono come modelli di confronto, come guida. Ma perché questo processo avvenga nel modo più fluido e sano possibile, è necessario che non si lascino destabilizzare dalle turbolenze tipiche della loro età e che connotano la loro relazione. Spesso si tratta del loro modo di saggiare la nostra capacità di esser-ci, presenti in grado di contenere le loro ansie e paure senza sentirsi invasi.

I giovani sono alla continua ricerca della loro identità. Il chi sono? diventa prioritario a tal punto da far emergere le fragilità. Un’identità in divenire che cerca basi solide su cui poggiare; la costante tensione verso la libertà, la ricerca continua di conferme che possano  annullare quel senso di vuoto annichilente, troppo difficile da sostenere. Una richiesta d’aiuto implicita, non sempre chiara, che mette in discussione ogni tentativo di sostegno, ma che in realtà cela il grande bisogno di una guida, di un modello da seguire per non smarrirsi in una realtà spesso difficile da contattare.

In particolare, la nostra società vede frantumarsi i legami, sempre più instabili ed incerti. Siamo sempre più connessi, ma sempre meno in relazione. I legami virtuali hanno soppiantato le relazioni vis-à-vis rendendo sempre più inafferrabile quel senso di immediatezza corporea, di presenza calda e rassicurante, di contatto fisico che placa e consola. Anche l’adulto è immerso in un mondo troppo complesso da gestire dovendosi spesso reinventare, sperimentandosi interlocutore competente, cadendo nella trappola del genitore amico, che sebbene da un lato possa sembrare apparentemente rassicurante perché consente di raggiungere più facilmente il giovane, dall’altro non risponde al suo reale bisogno di sostegno solido e di certezze.

La complessità delle nostre relazioni si riflette inevitabilmente nella struttura familiare sempre più precaria, chiamata continuamente a rinnovarsi e ad adattarsi a sistemi culturali in continua evoluzione, sempre più eterogenei ed interculturali. Sebbene negli ultimi decenni ci si è sempre più accostati ad un modello relazionale di tipo paritario, orientato all’abolizione delle differenze di genere o di status, sempre più aperto al dialogo ed alla relazione, dall’altro sente forte il rischio dell’inconcludenza e della mancanza di riferimenti.

In passato il modello educativo era impostato sull’autoritarismo (figura paterna), piuttosto che sull’autorevolezza, orientato dunque sull’imposizione di regole indiscutibili e questo garantiva certezze ed un certo senso di potere. L’autorità della figura paterna era indiscussa ed il rispetto delle regole garantito, mentre era trascurato l’aspetto emotivo.

Oggi si è passati ad un modello educativo di tipo paritario in cui i genitori cooperano nella crescita dei figli. Entrare nell’ottica della co-genitorialità vuol dire aprirsi alla logica relazionale, al dialogo, alla condivisione delle responsabilità e, soprattutto, al rispetto reciproco.

Impresa ardua conciliare le emozioni, la vicinanza, il calore con l’educazione e la disciplina. Ciò che in passato sembrava semplice e scontato adesso risulta faticoso e confuso.

Essere autorevole vuol dire essere riconosciuti nel proprio ruolo come figura stabile ed affidabile, ma soprattutto essere un modello di vita da seguire, senza il costante timore di sbagliare o di mostrare le proprie insicurezze. Non bisogna possedere tutte le risposte, ma abbandonare il proprio porto sicuro ed intraprendere il viaggio con il giovane alla ricerca delle sue risposte, che nel dialogo trova il suo senso.

Un lavoro continuo di consapevolezza e di contatto con la propria funzione genitoriale, che non ha a che vedere semplicemente con il ‘ruolo’, ma con il sentirsi genitore (padre o madre) nel corpo pienamente. Solo se si è in contatto con questa parte potrà trovare la giusta direzione, orientarsi nella relazione affinché trovi le risposte e soprattutto il modo di raggiungere l’altro. Una regola nata fuori da un contesto relazionale risulta spesso inaccettabile proprio perché non guarda al reale bisogno di quel ragazzo in quel preciso momento della sua crescita. L’educatore deve entrare nella logica di fare o dare ciò che per l’altro è nutrimento. Un cibo non desiderato diventa difficile da digerire. Ecco, dunque, che l’adulto deve essere la voce amica a cui fa riferimento Don Bosco, una presenza viva, attiva e costruttiva.

Una buona capacità educativa si fonda su una buona sintonizzazione emotiva: essere in contatto con i propri vissuti e con i vissuti dell’altro permette di capire qual’é la direzione giusta e soprattutto fa emergere le parole giuste affinché risultino efficaci ed edificanti per l’altro.

Il padre autorevole, infatti, non ha bisogno di minacciare o intimorire, ma con la sua pacatezza cerca di trasmettere le regole in modo risoluto. Una presenza corporea stabile e contattabile. La rigidità, al contrario, allontana dal contatto e dalla relazione, rendendo l’altro irraggiungibile ed innescando vissuti di solitudine, di angoscia ed aleatorietà. “Fatevi amare e non temere, correggete con pazienza e carità i loro difetti” affermava Don Bosco.

Educare, dunque, non vuol dire semplicemente insegnare, ma implica uno stile di vita in cui l’adulto diventa egli stesso strumento di apprendimento di valori e di principi, che nello stile di Don Bosco si traduce in una presenza totale, che si coniuga con la sua personalità, consacrata al bene della fascia più delicata della società. Un accostarsi ai giovani con un atteggiamento aperto e fiducioso e non imparziale come un giudice severo ed inflessibile. Il suo sentirsi parte, stare accanto e partecipare attivamente all’esistenza personale dei suoi fanciulli, da lui definiti ‘pupilla dei suoi occhi’ rendeva ancora più pregnanti ed edificanti i suoi insegnamenti. Quei giovani verso i quali erano rivolti tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni, proprio come un padre amorevole volge il suo sguardo completamente coinvolto nella crescita dei suoi figli. In questo modo nessun insegnamento cadrà nel vuoto, ma germoglierà nel tempo in cui l’incontro diventa incarnazione di vissuti e di esperienze per poi diventare parte integrante del sé.

di Carmen Ventura (Psicologa – Psicoterapeuta)

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